Libreria Liberamente
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GEORGES SIMENON: Il treno, Adelphi, 2008, pag 145, E. 16
Forse taluni possono avere distrattamente incontrato questo romanzo sullo scaffale di una libreria e aver pensato che fosse la traduzione di uno dei tanti, avvincenti, gialli di Simenon. Da parte mia fui sviata dal titolo di una recensione al libro: “Simenon, l’eros è nero”, e pensai si trattasse di un noir francese, fra passione e delitti. Passando oltre a tutto ciò si legge il libro; e non è un giallo, non è un noir erotico. E’ un capolavoro di introspezione psicologica, un intenso, struggente viaggio reale ed interiore che rivela spazi emotivi, sensualità e amore, nella vita di un uomo metodico e banale, costretto dalla guerra a fuggire con un convoglio di profughi. E’ la cronaca di un percorso iniziatico, la storia di una mente che scopre parti di sé silenziose e sopite che emergono ineluttabilmente, come per un destino. Malgrado la distanza fra le due culture, è un libro che si può porre sullo stesso piano dei capolavori di Sandor Maraj. Anche qui domina un’atmosfera di fatale presa di coscienza di una verità interiore che emerge gradatamente fino a manifestarsi in tutta la sua pienezza. Come spesso in Maraj, anche qui il protagonista scopre, grazie ad una figura femminile, aspetti inattesi della propria personalità che si manifestano attraverso sensazioni profonde, epifanie dell’anima, forme liberatorie di un altrove mai immaginato prima e all’improvviso percepito come il nucleo più vero di sé. Tutto questo avviene nel 1940, mentre i tedeschi invadono Olanda e Belgio e avanzano verso la Francia. Il protagonista, Marcel, racconta la sua storia in prima persona, cominciando dalle consuetudini di ogni giorno, destabilizzate dall’atmosfera di terrore provocato dalla minaccia tedesca. La narrazione è sempre incisiva, traccia magistralmente caratteri, stati d’animo, emozioni individuale e collettive. Mentre la famiglia di Marcel vive il proprio dramma personale, la lacerante sensazione di essere strappata alla propria esistenza e sicurezza, gli stessi sentimenti si trasferiscono sulla folla che si accalca verso i treni merci o le auto per fuggire dalla propria terra che presto, forse, verrà invasa. Mentre la vicenda si dipana, il diario del protagonista registra i mutamenti con sempre maggiore forza e suggestione. Marcel sta pensando al suo gallo, che ha lasciato a casa, sta pensando che non deve assolutamente smarrire i suoi occhiali, senza i quali non vede niente: sta vivendo tutta la propria insicurezza. Metodico, spento, tranquillo, buon marito e buon padre – ribadisce spesso: “Io amo mia moglie” – non si sente all’altezza di quella fuga verso l’ignoto. Non è abituato ad avere emozioni, non ha mai provato trasporto emotivo e crede che la propria vita possa continuare a scorrere in questo modo. Fino a che non arriva il suo appuntamento con il destino. Con la figlia, la moglie che aspetta un bambino e alcune cose nelle valige si avvia verso la stazione, lasciando la sua bottega dove ripara le radio. I gesti quotidiani si uniscono al clamore delle notizie sempre più allarmanti. La guerra entra con prepotenza nelle case tranquille; con l’irruenza del destino altri cambiamenti, più reconditi e misteriosi, come correnti sotterranee si preparano a salire in superficie. E’ quasi senza emozione che il protagonista vede la moglie e la figlia partire su un treno diverso dal suo, come se, d’improvviso, dopo aver calcolato e resa sempre puntuale la propria vita, si lasciasse soverchiare da forze superiori. Dal momento in cui sale sul treno, non esistono più regole, né pensieri consueti. Attorno aleggia la paura, ma ben presto il vagone del treno merci diventa un teatro in cui si muovono e interagiscono personaggi singolari e strani. Allora quel piccolo uomo mite e “senza qualità” entra a far parte di un nuovo mondo, sospeso nel tempo e nello spazio, in un’atmosfera che alterna insicurezza a stupore e ad inconsueta allegria. Si opera una frattura rispetto al mondo di prima; una lenta ma inesorabile metamorfosi avviene lungo il viaggio. Su quel vagone si mangia, si ride, si gioca a carte, si vivono avventure erotiche durante la notte, quasi che la situazione anomala e surreale consentisse una licenziosità che può andare oltre la paura. C’è anche una donna, silenziosa, in disparte, elegante. Lei e Marcel si osservano. E’ un momento fatale: come nei romanzi di Maraj, dal primo sguardo non vi è mai alcun dubbio sulla sorte che è predisposta per loro. E’ naturale, per entrambi, non staccarsi mai l’uno dall’altra. Sono destinati ad amarsi in ogni forma possibile, con il corpo e con lo spirito, a comprendersi fin nel profondo, a donarsi totalmente, in una simbiosi assoluta, in una intimità travolgente e al tempo stesso pacata e sicura, come se fosse esistita da sempre. Fin dall’inizio sanno entrambi cosa accadrà anche senza le parole. Saranno sempre uniti nella loro intensa dualità mentre il treno percorre una strada che nessuno distingue più, sostando nelle stazioni, raggiungendo un centro di accoglienza dove, isolandosi da tutti, Anna e Marcel avranno la loro dimora. Si sentono incredibilmente vivi mentre attraversano quei giorni come si attraversa un sogno dalla lucidità visionaria e archetipica. La situazione è irreale, ma proprio in quella irrealtà i protagonisti scoprono il nucleo della loro anima, la loro vera identità, la vera vita. “Era una faccenda tra me e il destino”, ripete il protagonista, e “avevo un appuntamento con il destino”, collocando così la sua storia in un orizzonte mitico, oltre il quotidiano incedere del tempo, in uno spazio assoluto, in un attimo eterno che resterà sempre dentro di loro anche quando dovranno staccarsi, quando Marcel ritroverà, con la stessa inesorabilità di quando le ha viste allontanarsi, la moglie e la figlia, insieme ad un nuovo bambino. Con lucidità e certezza sa che questo evento avverrà, e lo sa bene anche Anna. Il destino ha aperto un varco consentendo loro di conoscere se stessi attraverso l’altro, e quando quello spazio si richiude per lasciar posto al quotidiano porteranno dentro di loro quel patrimonio indelebile, quella “perfetta felicità”, quella possibilità di unione fusionale che permea tutto il loro viaggio insieme. Conoscono l’ebbrezza di poter intuire i pensieri l’uno dell’altra, liberando i sensi e i desideri segreti; hanno un codice inventato da loro per comunicare, un linguaggio che appartiene solo a loro. Percepiscono con acutezza sensazioni e odori, associandoli a luoghi e situazioni. Stanno a lungo fermi davanti al mare, si impadroniscono di scorci di paesaggi, di angoli di boschi; osservano il volo dei gabbiani, restando coricati sulla spiaggia, senza proferire parole che sarebbero superflue. “Eravamo così fusi l’uno con l’altro da avere uno stesso e unico odore”. Quello che entrambi sanno è quella empatia, è quel “noi”: “tutto quello che era stato ‘noi’ per un tempo tanto breve. Piangemmo, uno sopra l’altro… Il mare intanto ci bagnava i piedi”. Quel loro amore sentito e percepito con trasporto, quell’intensità di sentire diventa angoscia e dolore quando il tempo concesso loro dal destino sta per scadere, quando l’universo mitico si sta per chiudere sul tempo profano, sul vuoto assoluto che seguirà al loro distacco. Non vi è niente di volgare, di banale in questa cronaca scritta in modo straordinario, ricca di sensibilità e introspezione psicologica; si coglie piuttosto che si tratta di “affinità elettive” che vanno al di là di qualunque avventura erotica o amorosa: è la storia di due anime che, per un breve tempo, scoprono la loro vera dimora nella vicinanza l’uno all’altra. E’ una rivelazione che ha la potenza e il bagliore di una stella che li colpisce per far loro sfiorare il suo centro di luce. Per questo il protagonista ha scritto il racconto di quei giorni, lo ha scritto per il figlio, perché da adulto sappia che suo padre è stato anche “un altro uomo, capace di provare vera passione”. Ma la rievocazione di quel viaggio interiore la deve soprattutto a se stesso e ad Anna, per testimoniare che è avvenuto, che è esistito quel tempo in cui una parte della sua anima è stata illuminata : “… oggi mi chiedo se si trattasse davvero di amore. Voglio dire nel senso che si dà generalmente a questa parola, perché ai miei occhi era molto di più”.
ELISA FABBRI
domenica 14 dicembre 2008
Simenon e il viaggio
In sintesi
Maggio 1940. Le truppe della Wehrmacht dilagano in Belgio e minacciano i confini della Francia. Dalle Ardenne sciami di profughi lasciano le loro case prendendo d'assalto i pochi treni disponibili. Nel carro bestiame di un convoglio che procede lentissimo verso La Rochelle, un uomo mediocre, miope e di salute cagionevole, un uomo con una piccola vita mediocre e mediocremente serena, incontrerà una donna di cui non saprà altro, nelle poche settimane che passeranno insieme, se non che è una cèca di origine ebrea, e che è stata in prigione a Namur. Fra loro, all'inizio del viaggio che li porterà fino alla Rochelle, non ci sono che sguardi, ma un po' alla volta, senza che nulla sia stato detto, le due solitarie creature diventano inseparabili; finché, durante la prima notte che passano l'una accanto all'altro sulla paglia per terra, confusi fra altri corpi sconosciuti, accadrà qualcosa di inimmaginabile. Sarà l'inizio di una passione amorosa che li isolerà da tutto ciò che accade intorno a loro (l'occupazione tedesca, i convogli di sfollati, il tendone da circo che li ospita insieme ad altre decine di profughi), chiudendoli in un bozzolo fatto di desiderio, di gioco e di una scandalosa, disperata, effimera felicità